Vivalascuola. Basta con i governi della disequità!

Vivalascuola. Basta con i governi della disequità


Abbiamo aspettato di vedere all’opera il governo Monti e dopo 17 giorni la manovra salva-Italia è arrivata. I più colpiti sono i cittadini con più basso reddito, e tra questi i lavoratori della scuola: colpiti in particolare dagli interventi sulle pensioni, dall’aumento dell’Iva, dall’introduzione dell’Ici sulla prima casa. Intanto in Italia continua a crescere il divario tra ricchi e poveri, che supera la media dei Paesi Ocse, mentre diminuisce la redistribuzione della ricchezza attraverso servizi pubblici come sanità e istruzione.  


Smettiamo di parlare di discontinuità e cominciamo a praticarla
di Giovanna Lo Presti

Basta con i governi di nani e ballerine
Quando, negli ormai lontani anni Ottanta del secolo scorso, Rino Formica deprecava il craxismo bollandolo con l’efficace espressione “un governo di nani e ballerine”, non poteva immaginare quanto quelle parole sarebbero state adatte per l’Italia futura.
Il nostro Paese ha appena liquidato un governo di nani (metaforici, molti – reali, alcuni) e di ballerine. “Come donna mi fa orrore chi vende il suo corpo per ottenere profitto” diceva Carfagna, ex-ministro delle pari opportunità, sebbene lei stessa, qualche anno prima, ballasse discinta o comparisse in pose provocanti da calendari sexy; ed anche l’arcigna Brambilla si esibiva, non troppi anni fa, in look postribolare nella trasmissione “I misteri della notte”.
Siccome non è bello prendersela con le difformità fisiche né rinfacciare alle donne precedenti poco coerenti con il loro stato presente – quanti uomini politici hanno negli armadi ben più gravi contraddizioni! – limitiamoci qui ad onorare la chiaroveggenza di Formica.
Il governo del fare: danni per molti, nell’interesse di pochi
Bene, se ne è andato il governo di nani e ballerine. Ma, in onore alla memoria storica, di cui tutti lamentano la perdita, ricordiamoci ancora di qualche leit motiv che ci ha accompagnato negli ultimi tre anni. L’opposizione, ad esempio, ha continuato a dire che Berlusconi non ha governato, mentre il poveretto (Berlusconi) amava alla follia lo slogan del “governo del fare. Noi cittadini abbiamo assistito inermi alla disputa.
Come si possa aver sostenuto che Berlusconi non abbia “governato” ce lo dovrebbe spiegare Bersani, saggio capo dell’opposizione. E cosa crede Bersani, che il prossimo governo “politico” (lasciamo perdere l’attuale esecutivo di “tecnici”) adotti la pratica del “colpo di spugna” e si affretti quindi a cancellare i provvedimenti del “pigro” governo Berlusconi? Cosa crede la nostra esangue opposizione parlamentare, che la “riforma” Gelmini, la “riforma” Brunetta e il “collegato lavoro” spariranno come una bolla di sapone, che Marchionne e Confindustria torneranno sui loro passi? Aveva ragione Berlusconi, quando definiva il suo un “governo del fare”, cioè del “far male”, del far danno a molti nell’interesse di pochi.
Ma il nostro è davvero il Paese delle Meraviglie: non tanto perché popolato da creature bizzarre (e certo l’inquietante sorriso di Berlusconi qualche affinità con il sorriso del Gatto del Cheshire ce l’aveva) quanto perché popolato da milioni di credule Alici. Si è potuto persino sperare in Monti; certo il suo governo è assai distante, nella forma, dal Circo Barnum berlusconiano; ma la sostanza non cambia.
Un altro governo senza memoria né responsabilità
Non cambia la fascia di cittadini cui vengono richiesti i sacrifici, non cambiano le modalità per reperire i fondi necessari per la “manovra, non cambia la capillare diffusione di notizie false e tendenziose, atte a suscitare il consenso delle Alici di cui sopra. Tra Berlusconi che firma nel salotto di Vespa il Contratto con gli Italiani (ma com’è che Berlusconi non è stato allora sepolto e dissolto da una colossale risata nazionale?) e Monti che, nello stesso salotto, tratta dall’alto in basso il suo intervistatore e considera ineluttabili tutti i “sacrifici” richiesti dalla manovra c’è un’abissale differenza di stile, ma identità per quel che riguarda la capacità di raccontar frottole ai cittadini. Anche se “frottole” è una parola che sembra molto adatta allo stile esuberante e cialtrone dell’ex-premier e del tutto inadeguata per la severità del professor Monti.
Monti, però, ha dimostrato la stessa disinvoltura del suo predecessore nell’uso delle parole: ha definito “equa” una manovra sommamente iniqua. E piangano pure (ma che vergogna!) le ministre che vedono abbattersi sui pensionati a basso reddito la scure dei tagli! E ci raccontino pure la favola dell’aumento dell’età pensionabile (66, 67, 68 anni?) come indispensabile e necessaria misura per garantire il futuro dei nostri figli, ed abbiamo la sfacciataggine di dire (io l’ho sentito, in una autorevole tribuna televisiva) che è necessario che i nonni facciano sacrifici per i loro nipoti. La cosa importante è che il popolo italiano non ci creda e trovi la forza per esprimere un doveroso dissenso.
Berlusconi e Monti sono politici dell’hic et nunc; agiscono come se gli ultimi trent’anni non fossero mai esistiti, come se la responsabilità della situazione attuale non appartenesse a nessuno. Contro questa cattiva metafisica, che erge a giudici dei destini di intere popolazioni i Mercati Finanziari, è ora di ribellarsi. Se chi ci governa ignora opportunamente gli ultimi trent’anni, ricordiamoci noi, i governati, almeno i dati essenziali – ritorniamo a casa come Pollicino, recuperando la strada giudiziosamente segnata con le briciole, briciole formate da fatti che devono riuscire ad agire nella memoria collettiva.
La lotta di classe c’è già stata e l’hanno stravinta i capitalisti
Iniziamo dall’equità, tanto cara a Monti; è equo un Paese in cui il 10% della popolazione detiene più della metà della ricchezza della nazione? Certo che no, tanto più se, in un trentennio, 10 punti di PIL si sono spostati dai lavoratori ai detentori di grandi rendite. 10 punti di PIL sono una cifra enorme, che ha significato soltanto per l’orecchio assoluto di grandi imprenditori, banchieri, finanzieri; per tradurla in termini più comprensibili ai comuni cittadini, possiamo far riferimento alla stima riportata, nel 2007 (cioè in tempi migliori di questi) dal rapporto della Banca dei regolamenti internazionali.
A questo proposito Maurizio Ricci su la Repubblica (non su qualche foglio clandestino dell’ultra-sinistra), a maggio del 2008 aveva scritto un articolo che esordiva, brillantemente, con questa frase: “La lotta di classe? C’è stata e l’hanno stravinta i capitalisti”. E proseguiva:
“L’allargamento della fetta del capitale comincia subito dopo, nel 1985. Ma per il vero salto bisogna aspettare la metà degli anni ’90: i profitti mangiano il 29 per cento della torta nel 1994, oltre il 31 per cento nel 1995. E la fetta dei padroni, grandi e piccoli, non si restringe più: raggiunge un massimo del 32,7 per cento nel 2001 e, nel 2005 era al 31,34 per cento del Pil, quasi un terzo. Ai lavoratori, quell’anno, è rimasto in tasca poco più del 68 per cento della ricchezza nazionale. Otto punti in meno, rispetto al 76 per cento di vent’anni prima. Una cifra enorme, uno scivolamento tettonico. Per capirci, l’8 per cento del Pil di oggi è uguale a 120 miliardi di euro. Se i rapporti di forza fra capitale e lavoro fossero ancora quelli di vent’anni fa, quei soldi sarebbero nelle tasche dei lavoratori, invece che dei capitalisti. Per i 23 milioni di lavoratori italiani, vorrebbero dire 5 mila 200 euro, in più, in media, all’anno, se consideriamo anche gli autonomi (professionisti, commercianti, artigiani) che, in realtà, stanno un po’ di qui, un po’ di là. Se consideriamo solo i 17 milioni di dipendenti, vuol dire 7 mila euro tonde in più, in busta paga. Altro che il taglio delle aliquote Irpef”.
Questo, dunque, qualche anno fa: adesso le cose sono ancora peggiorate e la razza padrona e ladrona ha il coraggio di chiedere ulteriori sacrifici alla popolazione così abbondantemente taglieggiata negli ultimi decenni.
La scuola come la società
In ogni società la scuola è strettamente funzionale al modello sociale che la contiene. Come può essere la nostra scuola italiana, se non diseguale, classista, iniqua? Una scuola pessima per molti e buona per pochi – i figli della classe dominante. Ma questi, fra poco, non avranno più bisogno della scuola pubblica: stanno finendo i tempi in cui frequentare certi licei statali era considerato prestigioso anche per chi veniva dalla upper class. Resterà la scuola pessima per molti, ridotta ad un luogo in cui praticare la reclusione sociale dell’infanzia e dell’adolescenza che, in tristi e fatiscenti aule, cominceranno a piegarsi all’esistenza precaria che li attende – e a perdere la speranza. Per educarli ed istruirli ci saranno insegnanti sempre meno pagati, sempre meno motivati, sempre più vecchi.
L’ultimo, recente rapporto sulla scuola della Fondazione Agnelli si è occupato della scuola media di primo grado. Fra i non pochi fattori di sofferenza di tale segmento scolastico, veniva indicata l’età media degli insegnanti (52,1 anni), giudicata eccessivamente alta. L’auspicato svecchiamento del corpo docenti sarà ben difficile da realizzare, se la “riforma pensionistica” voluta dal nuovo esecutivo andrà in porto. Già oggi a scuola si può lamentare la perdita di una generazione di insegnanti: i pochi “giovani” sono preoccupati – e giustamente – dal loro stato di precarietà lavorativa, non riescono ad avere quella continuità che può loro garantire di vedere i frutti del loro complesso lavoro, subiscono processi di formazione (vedi il disastro delle SISS) improvvisati ed omologanti.
Tutto questo avviene in un periodo in cui, nelle aule, dovrebbero insegnare adulti ben strutturati culturalmente e didatticamente, per far fronte a studenti su cui la pressione del mondo esterno alla scuola è fortissima e che sempre più di frequente – e in età sempre più precoce – mostrano resistenze nei confronti di ogni tipo di disciplina.
Ma la scuola vera non interessa chi ci governa
Da anni i nostri burocrati ministeriali producono le loro trite riflessioni a partire da una “scuola virtuale”, che nulla ha a che fare con la realtà del mondo scolastico. Ecco cosa dice, in una recente intervista, il sociologo Luciano Gallino sui tagli alla scuola:
I tagli alla scuola in tutte le sue forme e livelli, dalle materne all’università, sono uno tra i provvedimenti più insensati che si potessero immaginare per far fronte ai problemi dell’occupazione giovanile e del rilancio dell’economia. Nel giro di pochi anni si avranno centinaia di migliaia di ragazzi meno formati e meno istruiti di quanti ne avremmo avuti senza i tagli “lineari”. Bisogna dire che altri paesi, la Germania o il Regno Unito ad esempio, dove pure hanno ridotto le risorse destinate allo Stato sociale, hanno evitato di metter mano ai fondi per la scuola.
Da noi, invece, comunque lo si guardi, si tratta di una sorta di suicidio nazionale e, al tempo stesso, è un attacco – ho sentito uno storico definirlo un genocidio culturale – nei confronti delle nuove generazioni.
Nella stessa intervista Gallino afferma anche che ci sarebbe bisogno, in tutti i campi, di maggior pensiero critico. Nulla di più giusto; soltanto un Paese popolato da Alici nel Paese delle Meraviglie può credere alla favola del lavoro flessibile (ormai abbiamo le prove: si tratta solo e soltanto di lavoro precario e dequalificato), ai piagnistei di Marcegaglia che vorrebbe quella flessibilità ancora maggiore, alla vergognosa bugia secondo la quale per aumentare l’occupazione bisogna aver la possibilità di licenziare, alla delirante idea secondo la quale per il bene dei nostri figli dobbiamo lavorare ben oltre i quarant’anni.
Smettiamo di parlare di discontinuità e cominciamo a praticarla
Ognuno di questi punti può essere facilmente smontato, dati alla mano. La razza padrona ci ha impoveriti e non è ancora sazia: ci vuole ancora più precari, più poveri, più ignoranti. E’ necessaria discontinuità: ma smettiamo di chiedere discontinuità a chi ci governa e cominciamo a praticarla.
E’ tempo di dire basta ad ogni acquiescenza, di finirla di credere che chi ha un lavoro stabile debba sentirsi in colpa verso chi ha un lavoro precario; non bisogna più accettare supinamente i molti sacrifici che da troppi anni ci vengono richiesti.
Bisogna esigere equità sociale – Monti forse preferisce ignorarlo, ma il nostro Paese occupa uno dei primi posti nella graduatoria mondiale per la diseguaglianza economica fra i cittadini. Però, visto il mestiere che fa, dovrebbe sapere che su quella diseguaglianza si innestano tutte le altre.
I rimedi a questo stato di cose sono evidenti: innanzitutto redistribuzione della ricchezza (programma che i nostri Robin Hood al contrario hanno praticato vittoriosamente e vogliono continuare a praticare; è ora di imitarli!), e poi lavoro dignitoso per tutti (basterà pretendere il rispetto della nostra Costituzione), e poi, per favorire la creazione di posti di lavoro reali, pensionamenti possibili – e non punitivi – dopo i trentacinque anni di contributi e riduzione dell’orario.
E poi ancora, si deve pretendere che la razza padrona ci restituisca il mal tolto e che l’assistenza, la Sanità e la Scuola pubblica siano adeguatamente sostenute dallo Stato. E l’Europa? E il mondo? E i mercati? Impariamo da Bauman: lo spostamento in luoghi sempre più distanti e irrangiungibili dei centri di decisione politica è il modo più semplice e più comodo per frenare la volontà di rivolta locale della popolazione. Cominciamo, perciò, a prendercela con chi ci governa.

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http://lapoesiaelospirito.wordpress.com/2011/12/12/vivalascuola-97/

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