Come (non) parlare di politica a scuola



Tra i fannulloni c’era anche il comunista prof Dionisi, “inculcatore” di professione e noto provocatore. Aveva avuto l’ardire di affermare a lezione che “le Foibe sono niente di fronte all’Olocausto” per questo l’avevo denunciato al vicepreside… Il bastardo non teneva il capo chino e addirittura ha avuto la faccia tosta di mormorare qualcosa quando la telecamera lo ha inquadrato. I miei compagni giurano che le labbra abbiano inequivocabilmente pronunciato la parola “pezzi di merda (Alessandro Cartoni).
Taci tu, che taccio anch’io. E tu, Tacito, tacitati per sempre
di Lucia Tosi
Intorno al 60 d.C. Nerone prese saldamente in mano le redini del potere, avviando una serie di innovazioni e di riforme che dimostravano la volontà di andare incontro alle esigenze delle province e dei ceti meno abbienti, ma che presentavano tuttavia un carattere improvvisato e persino pericoloso per l’assetto dello stato e soprattutto per le finanze statali, come quando propose l’abolizione delle imposte indirette e la soppressione di dazi e di dogane. [...]
Nerone proponeva il culto della personalità e si faceva sostenitore di ideali ellenizzanti e orientaleggianti che finirono per contrapporlo a una nobiltà che era in larga parte ancora arroccata nella difesa di un’antica moralità quiritica di cui si riteneva depositaria. [...]
Nerone, assecondato dal nuovo prefetto del pretorio Tigellino, ebbe mano libera e proseguì nella sua ‘rivoluzione culturale‘ avviando progetti faraonici che dovevano lasciare la sua impronta nella storia, ma anche istituendo gare di canto e gare di quadrighe alle quali voleva che la nobiltà partecipasse secondo i modelli greci.[...]
Nerone, e per questo si può parlare di ‘rivoluzione culturale‘, impone a Roma quello che Tacito (Annales XVI,4) non esita a definire publicum flagitium, una ‘vergogna pubblica‘…”. (Roncoroni, Gazich, Marinoni, Sada, Documenta humanitatis, vol. 3, tomo A, C. Signorelli, 2007)
Riga più, riga meno, il profilo della prima età imperiale, in uno qualunque dei manuali di storia della letteratura latina in uso nei licei, mostra, da che insegno, e da prima, da quando stavo seduta dall’altra parte (della barricata, ché di barricate si tratta, o tali le hanno fatte diventare) esattamente questa sequenza su Nerone: di come si affrancò da Burro e Seneca, di come volle fare a modo suo, di come si circondò di cortigiani, nani e ballerine, la lista delle sue follie e libidini, dei divorzi e degli assassini di palazzo, non ultimo quello della madre, Agrippina. Se si studiano le circostanze che permisero a Nerone di diventare imperatore, si legge che la madre covava in seno il desiderio di vederlo sul trono fin dal concepimento, per riscattare, con la gloria e il potere, la devastazione subita dalla sua famiglia per opera dell’invidioso Tiberio. Così Agrippina manovrò per farsi sposare dallo zio Claudio: lo scandalo dell’incesto fu messo a tacere modificando la legge che impediva i matrimoni tra consanguinei: come Semiramide che libito fe’ licito in sua legge/per torre il biasmo in che era condotta (Inf. V).
Basta limitarsi a studiare Tacito per entrare in un ginepraio particolarmente spinoso di spunti politici. Non una sola opera scritta dal senatore romano – e sottolineo senatore – consente di aggirare l’ostacolo. E’ noto, per esempio, l’uso che certi ambienti fecero tra ’800 e ’900 della monografia Germania, di come si arrivò a sostituire, in particolare, una congiunzione nel cap. 4, in cui l’autore mostra di adeguarsi all’opinione dominante circa i caratteri somatici dei Germani, che sottolineasse in modo più spiccato l’unicità e la purezza della razza (tamquam>quamquam).
Si prenda il Dialogus de oratoribus, attribuitogli non senza incertezze: vi si discute principalmente della decadenza dell’oratoria. Nel cap. 40, verso la fine dell’operetta, attraverso il suo portavoce, Curiazio Materno, Tacito depreca lo stato dell’arte:
Noi non parliamo di una cosa tranquilla e pacifica, che si compiace dell’onestà e del senso della misura; no, quella grande e così vistosa eloquenza è figlia della licenza, che gli stolti chiamano libertà, è compagna dei disordini, è pungolo per la sfrenatezza del popolo, è incapace di obbedienza, di severità; è ribelle, temeraria, arrogante, e non può nascere negli stati ben regolati.
Quale oratore noi conosciamo infatti o di Sparta o di Creta, stati in cui, come tramandano, l’ordine era severissimo e severissima la legislazione? Neppure dei Macedoni e dei Persiani né di alcun popolo, che abbia accettato di vivere sotto un governo rigido e stabile, noi conosciamo l’eloquenza. Sono esistiti alcuni oratori a Rodi, moltissimi ad Atene, perché lì il popolo poteva tutto, tutto potevano gli incompetenti e tutti, per così dire, potevano tutto.
Anche la nostra Roma, finché si mosse senza direzione, finché si sfinì nelle lotte di parte, nei dissidi e nelle discordie, finché non vi fu pace alcuna nel foro, nessuna concordia in senato, né una regola nell’attività dei tribunali, né rispetto per l’autorità, né limite alcuno al potere dei magistrati, anche Roma produsse un’eloquenza senza dubbio più vigorosa, come un terreno incolto ha erbacce più rigogliose. Ma per lo stato l’eloquenza dei Gracchi non valeva tanto da dovere subirne anche le leggi, e Cicerone ha pagato troppo cara, con una fine così triste, la fama della sua eloquenza.
Prendiamo una delle digressioni etnografiche che tanto piacciono al genio dello scrittore: il libro V delle Historiae, dedicato alla conquista da parte di Tito di Gerusalemme, da cui derivò la diaspora degli ebrei. Qui lo storico si lascia andare ad un atteggiamento che potremmo definire antisemita, definizione che non è propria del mondo antico, e non diffuso come nel nostro (di qualche giorno fa le imbarazzanti esternazioni di Lars Von Trier a Cannes, seguite da ritrattazioni alquanto goffe che non fanno che peggiorare l’increscioso incidente). Gli ebrei non mangiano i bambini (per fortuna, almeno quello) ma, sostiene Tacito, sono destinati a metterne al mondo tanti, perché sono gente “incline alla lascivia” che si astiene “dall’avere rapporti con donne straniere, ma tra loro nulla è vietato”.
Ho voluto scegliere apposta, tra le infinite possibilità, un autore lontano, in una disciplina sempre più di nicchia come il latino, per ragionare sul clima prospettato, meglio: minacciato, agli insegnanti dall’ennesima trovata scemica del deputato Pdl Fabio Garagnani, lo scorso 13 maggio.
Il tema “non si parli di politica a scuola” era già stato introdotto da Gelmini (vedi qui e qui), ancora nel settembre del 2009, intendendo politica di sinistra, ovviamente: eco di uno dei tormentoni preferiti dal Premier, per il quale gli insegnanti sono tutti comunisti, come i giudici. Politica a scuola e libri di storia troppo schierati sono due aspetti che si saldano, sia dal côté di chi, in malafede, vorrebbe imbavagliare la libertà di opinione e la libertà di insegnamento, sia per chi, tutti i giorni, si misura con la didattica delle discipline umanistiche (ma anche linguistiche, dal momento che studiare la civiltà dei paesi di cui si studia la lingua, implica immediatamente delle considerazioni storico-politiche).
Non si vorrebbe essere costretti a scomodare, a proposito di politica, Platone e Aristotele, saprebbe di pedantesco, ma pare evidente che deputati, ministri e primi ministri della destra a-storica italiana o erano assenti quando ne parlarono nelle loro scuole, o dormivano, o, e ce lo vengano a mostrare, esiste un modo di lasciare la politica fuori dalle aule parlando di società, cultura, ingegno umano, ambiente, persino sentimenti.
Credo che questo bislacco modo di insegnare non si trovi in alcun dove. Vero è che quei deputati, ministri, primi ministri hanno migliaia di anni di civiltà che gli remano contro e vorrebbero imbavagliare le bocche e ingessare le coscienze. Purtroppo per loro, non solo il cittadino italiano non è scemotto “come un ragazzino di undici anni neanche tanto intelligente” – e pare i recenti sviluppi in materia elettorale l’abbiano dimostrato –, ma addirittura gli studenti arrivano da soli a produrre le loro inferenze.
L’anno scorso uno studente di quinta ridendo mi disse di aver studiato l’età Giulio-Claudia il pomeriggio precedente divertendosi a sostituire ‘Berlusconi’ a ‘Nerone’ “e tutto filava liscio a meraviglia, specie sui processi per lesa maestà. Era uno studente brillante, della buona borghesia, cattolico praticante, sicuramente di area moderata, come ne ho sempre tanti nelle mie classi. Peggio che andar di notte! E’ lì che nasce la preoccupazione della destra a-storica: se mi influenzi anche i tranquilli borghesi, è fatta!
Ti sbagli, Filippo, non c’è nessuna possibilità di confronto tra Nerone e Berlusconi: il nostro presidente del consiglio non è piromane e non dà la colpa ai cristiani: con questi ci va a pranzare, e per farsi la villa nuova sbanca la costa senza ricorrere al fuoco”. Ma anche questa affermazione, al grado zero, potrebbe indurre a cattivi pensieri. No: bisogna eliminare tutto quanto possa indurre alla riflessione critica in assoluto e particolarmente in relazione al presente, e volgere in positivo o neutrale quanto si trova nel libri di storia, di filosofia, di letteratura.
E fu così che Nerone, Domiziano, Commodo, Eliogabalo, Diocleziano divennero prima di tutto delle bravissime persone e poi degli insigni statisti, parolina magica che tanto piace alla destra a-storica. Nerone fece dunque provvedimenti socialmente utili distribuendo gratuitamente panem, provvedimento le cui tracce si possono riconoscere nel ricorso alle tessere annonarie in epoca fascista (glorioso periodo di benessere e prosperità in cui i treni arrivavano in orario) e nella social card dell’era berlusconiana della quale, grazie a Dio, abbiamo sentito parlare per poco o niente, non avendone, gli italiani, assolutamente bisogno.
Nerone, inoltre, che aveva suonato la cetra sulle navi per guadagnarsi gli studi di greco, diventato ricco continuò a cantare per puro diletto, avendo a cuore, come primo e unico scopo, il benessere dei suoi sudditi, che non erano più già allora sudditi, ma concittadini. Era per questo che era sceso in campo (nel circo), rinunciando al suo personale benessere. Amò, non ricambiato, due donne che lo tradirono, lui che non vedeva che loro e che aveva come unico principio la fedeltà assoluta e il senso della famiglia. Non era pazzo, come a lungo si affannarono a sostenere gli storici, aveva piuttosto degli ideali che perseguiva ossessivamente e con grande spirito di abnegazione. Non era populista, ma sinceramente dedito alla cura dei ceti meno abbienti, altrimenti abbandonati dalla classe senatoria, tutta di sinistra, come è arcinoto, dal momento che si ostinava a prendere decisioni collegiali discutendo le leggi e i provvedimenti nell’assemblea del Senato.
Posso provarci, possiamo provarci. Se non ci riesce abbandoniamo la partita, passiamo ad altro.
Allora… polis, democrazia ateniese, tirannide, consolato, Catone il Censore, Scipioni, Gracchi? Vade retro. Cicerone: ma che, scherziamo? Via, via. Imperatori: già visto, non funziona. Primo Medioevo: uhm, la signoria di banno, ci starei attenta, a meno che con aria indifferente non lasci prendere la parola a qualche spiritosone che sicuramente dirà “ma… bannare, viene da banno?”. Saltare i missi dominici che non venga in mente di paragonarli ad Equitalia, via via. Come faceva a riscuotere le imposte Carlo Magno? Ma non aveva bisogno di riscuotere alcunché, era ricco di famiglia!
Dante? Mamma mia, per carità! Cancellare: è tutto un brulicare di riferimenti all’oggi, sempre così arrabbiato coi potenti, mai contento. Petrarca, sì, fin che parla di Laura, però non diciamo agli studenti che ha scritto “Italia mia, benché il parlar sia indarno” che tocca spiegare troppe cose. Boccaccio no, perché con tutto quel parlare delle donne, si sa, meglio di no: e poi non andiamo a ragionare sulla comicità se no non ridono più alle Sue barzellette. L’ umanesimo si può saltare, che tanto non glielo chiederà mai nessuno. Machiavelli sì, alla lettera, non facciamo scherzi, consigliamo, anzi: adottiamo, l’edizione del Principe con la Sua prefazione. Dopo problemi non dovrebbero essercene perché l’Italia entra in stand-by.
Maneggiare con cautela Parini e Alfieri, fare un bel corso monografico in quinta di tre mesi su Vincenzo Monti: perché no? Così carino coi potenti, servizievole, anche per cambiare un po’ i programmi. Manzoni e Verga: che barba, sempre quest’Italia di poveri e vessati: possiamo saltare? Il Carducci maturo e D’Annunzio: assolutamente! Il Pascoli delle vecchie nonne, va sempre bene, ricordarsi di caldeggiare “la Grande Proletaria s’è mossa”, chiarendo l’etimologia di ‘proletaria‘, che in queste cose bisogna essere precisi.
Pirandello si può trattare, avendo cura di mettere in luce che era in ottimi rapporti con il fascismo, che ne finanziò le opere teatrali e approfittando dell’occasione per attualizzare la questione, ricordando quanto fa per la cultura il nostro attuale Governo. Si può agevolmente bypassare quei noiosoni degli anni ’40-’80, salvo che per ricordare, come è doveroso, le foibe e il progetto eversivo delle Brigate Rosse, e passare alla cultura degli anni novanta parlando dei grandi scrittori e poeti italiani viventi: Tamaro, Volo, Moccia, Melissa P., Bondi. E poi, finalmente, parlare di Lui, senza alcun problema, senza legami, allusioni, in un tempo-spazio asettico, libero, dove la Storia non arriva e la politica meno che meno.
* * *
Una giornata particolare
di Alessandro Cartoni

fonte: http://lapoesiaelospirito.wordpress.com/2011/05/23/vivalascuola-83/

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